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PAROLE, GESTI E CORPO. LE LEVE DA POTENZIARE

Consigli per i genitori

PAROLE, GESTI E CORPO. LE LEVE DA POTENZIARE

IL LINGUAGGIO

Integrazione tra linguaggio e corpo

Secondo la teoria della competenza linguistica di Chomsky, il linguaggio è qualcosa di innato nel bambino che corrisponde ad un insieme di regole che il bambino scopre. Le tappe di sviluppo del linguaggio sono però soggette alla cultura di appartenenza del bambino.

Il linguaggio è un processo attivo dato da un meccanismo denominato LAD (Language Acquisition Device), un sistema di Grammatica Universale (sistema di principi, condizioni e regole, elementi di tutte le lingue) dato da una matrice biologica che comporta la predisposizione a comprendere e produrre frasi, indipendentemente dalla lingua madre.

Secondo Chomsky il bambino è creativo, segue regole diverse dagli adulti che utilizzano un linguaggio meno ricco rispetto a quello utilizzato dai bambini perché già soggetto alle regole culturali. I bambini, ad esempio, fanno mostra del LAD utilizzando degli ipercorrettismi (“romputo” per rotto).

Chomsky considera la linguistica una branca della psicologia: quella che ha a che fare con la capacità propria degli esseri umani di padroneggiare una lingua. Tre problemi devono essere accuratamente distinti:

  • in che consista la conoscenza di una data lingua;
  • come venga acquista tale conoscenza;
  • come tale conoscenza sia usata.

Il linguista deve concentrare la propria attenzione sulla natura e sulla genesi della competenza linguistica e non sulle modalità dell’esecuzione. L’acquisizione di una lingua può essere spiegata solo postulando l’esistenza di una facoltà mentale altamente specializzata e innata (cioè dipendente da caratteristiche del cervello umano che sono geneticamente determinate). Sarebbe altrimenti un mistero come i bambini possano imparare a parlare.

Una qualsiasi lingua naturale ha una struttura estremamente complessa, eppure un bambino riesce ad impadronirsene rapidamente e con facilità sulla base di dati tutto sommato scarsi e frammentari. L’unica spiegazione possibile è che tutte le lingue naturali abbiano una struttura in gran parte comune e che questa struttura comune, poiché rispecchia il modo di funzionare innato della facoltà del linguaggio, non abbia bisogno di essere appresa dal bambino.

Le riflessioni metodologiche di Chomsky, notevoli per lucidità e rigore e sorrette da un’eccezionale familiarità con gli ambiti disciplinari più diversi, hanno avuto ampie ripercussioni anche al di fuori della linguistica, contribuendo in misura determinante al sorgere del cognitivismo.

 

SVILUPPO DEL LINGUAGGIO

Da lallazioni a prime parole

Da linguaggio sociale a linguaggio interiorizzato (secondo Vygotskij)

 

7-12 mesi: lallazione, prima comprensione,

gesti deittici (servono per indicare, hanno

intenzione comunicativa, è un insieme di gesti

convenzionali che fanno riferimento al mondo

esterno) e gesti referenziali (hanno un preciso

significato che non varia per contesto, nascono

nelle routine sociali, nei giochi con gli adulti,

accompagnano le prime parole)

bambino a 12 mesi: ascolta gli altri, comprende

e si appropria delle parole per interagire in

modo autonomo. Il linguaggio in questo caso

è inteso come strumento sociale di

comunicazione.

 

 

 

12-24 mesi: produzione di prime parole,

esplosione del vocabolario, dalla lallazione alle

protoparole (queste sono un indice predittivo

di disturbi linguistici), passa dalla referenza

(parola e gesti referenziali) alla predicazione

(combinazioni di parole di senso compiuto)

 

 


24-36 mesi: comparsa delle prime frasi, il

bambino mostra una progressiva efficienza sul

piano lessicale, morfologico e sintattico.

 

 

bambino a 6-7 anni: il linguaggio diventa

sempre più ricco e il bambino lo usa da solo

con sé stesso per ordinare pensieri e azioni

(commenta ciò che fa utilizzando quindi un

linguaggio egocentrico)

 

 

 

 

 


bambino a 8-10 anni: il bambino dice

interiormente quello che deve fare (il

linguaggio è stato interiorizzato ed è utilizzato

per dar voce al pensiero)

 

 

 

 

I GESTI

 

Benedetta: il suo agire

 

Nicola, l’azione “maldestra”

Nei bambini, specie nelle prime fasi dello sviluppo, è fondamentale porre attenzione sia ai comportamenti verbali che alla produzione gestuale poiché i gesti, anche in ambito valutativo, possono contribuire ad una diagnosi precoce.

Uno scarso uso dei gesti, come l’indicare per esempio, in alcuni principali momenti dello sviluppo, potrebbe essere un segnale, a volte anche solo transitorio, di ritardo nel processo di acquisizione. Una comunicazione gestuale particolarmente povera, in un bambino piccolo, dovrebbe guidare verso un approfondimento diagnostico.

 

 

 

 

IL CORPO

 

Neuroni specchio

 Come umani non possiamo limitarci al solo movimento afinalistico delle mani, della bocca, delle braccia. Noi utilizziamo tali “pezzi” perché, proprio attraverso essi, siamo in grado di raggiungere, mordere, afferrare l’oggetto. E’ negli atti che le cose assumono per l’uomo l’immediato significato.

Nella dinamica dell’azione entra a far parte la percezione, che risulta essere più articolata, in quanto il cervello che agisceè innanzitutto un cervello che comprende.

Dagli atti più naturali, come afferrare del cibo con la mano o con la bocca, a quelli più complicati, che richiedono particolari abilità, i neuroni specchio permettono al nostro cervello di correlare i movimenti osservati a quelli propri, e di riconoscerne il significato.

Prendere in mano una tazzina di caffè richiede una serie di processi tanto interconnessi tra loro da risultare di primo acchito indistinti. Innanzitutto, abbiamo bisogno d’identificare la tazza, scegliendola eventualmente tra altri oggetti presenti intorno a noi che catturano la nostra attenzione. Per fare questo, dobbiamo orientare la testa e gli occhi in maniera tale che l’immagine della tazza cada sulla fovea, cioè sul punto della retina in cui l’acuità visiva è massima, permettendoci di apprezzarne l’aspetto: forma, colore, orientamento del manico.

Per poterla afferrare abbiamo bisogno di localizzarla rispetto al nostro corpo. Solo allora possiamo allungare la mano e raggiungerla; nel frattempo, dobbiamo prenderne le misure per poterla afferrare nel modo che riteniamo più opportuno.

La tazza ci detta una serie di misure e modalità di afferramento: sta a noi rispondere e decidere come muoverci e conformarci ad esse, assumendo tra le prese possibili quella più idonea all’uso, più consona alle nostre abitudini.

Poiché solitamente non ce ne accorgiamo, ancor prima di raggiungerla, le dita e il palmo della nostra mano hanno già iniziato a prefigurare la forma geometrica della porzione della tazza che c’interessa e gli eventuali tipi di prensione. Non appena la raggiungiamo, la mano riceve informazioni dalla cute, dalle articolazioni e dai muscoli che le permettono di raffinare la presa e di portare la tazza alla bocca.

Anche senza considerare gli aggiustamenti posturali e il ruolo svolto dall’apprendimento e dall’esperienza nelle varie fasi d’identificazione, localizzazione, raggiungimento e prensione dell’oggetto, un gesto così semplice rivela un complicato intreccio di sensazioni visive, tattili, olfattive, propriocettive, di nessi motivazionali, performance motorie, disposizioni corporee, che interagiscono tra loro e con gli oggetti che ci circondano.

 

 

 

 

 

 

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